Tra i temi più discussi di questo periodo c’è l’intelligenza artificiale, che pone quotidianamente quesiti etici, economici, sociali, del lavoro e riflessioni che affondano le radici nella filosofia e nella sociologia. L’argomento origina sempre più interesse, perché ormai la tecnologia più avanzata del digitale sta modificando inevitabilmente ogni aspetto della nostra vita quotidiana. E promette di farlo sempre più. Una tra le definizioni più autorevole sostiene che l’intelligenza artificiale sia una risorsa di agenti autonomi, capaci di interagire e di imparare, che possono essere usati per eseguire compiti che altrimenti richiederebbero l’intelligenza umana per essere portati a compimento. Se prima il prodotto dell’intelligenza artificiale era limitato all’automatismo, adesso l’autonomismo le rende capaci di apprendere mentre interagiscono. Sembrano intelligenti ma in realtà non lo sono, almeno fino al punto da sostituire il genere umano. E’ questa autonomia però a spaventare, ma anche a offrire enormi praterie per liberare l’uomo dai compiti più faticosi, ripetitivi, e magari anche da quelli più pericolosi.
L’intelligenza artificiale – pervasiva nella società, soprattutto nell’economia digitale, dopo lo sviluppo di applicazioni e di algoritmi – ha radici nel lontano 1955, quando matematici e informatici statunitensi – tra i quali John Mc Carty, Marvin Minsk – avanzarono l’idea di un programma progettato per imitare le capacità di problem solving degli esseri umani. Dopo una prima fase di entusiasmo, nacquero però le prime difficoltà relative alla capacità delle macchine di un ragionamento puramente sintattico, ma non in grado di sviluppare e correlare significati. Dovranno passare più di venti anni per tornare a parlare di intelligenza artificiale grazie agli studi di jay mcclallans e David Rumelhort. Se prima queste applicazioni erano riservate alle grandi aziende o alle multinazionali, oggi con la diffusione del cloud computing, assistiamo a una democratizzazione delle nuove tecnologie, rese fruibili anche alle Piccole e medie aziende. Le enormi possibilità economiche offerte dall’utilizzo di queste applicazioni e algoritmi – a parere dell’IDC – entro la fine del prossimo anno raggiungerà il valore di 77 miliardi di dollari, più di tre volte il valore del 2018. E l’impatto che avranno sull’intera economia mondiale hanno già posto in ombra la discussione sui rischi etici e sociali che l’utilizzo non governato di queste tecnologie può comportare.
Software e algoritmi sono sempre più complessi e rendono disponibili nuove applicazioni, che modificano interi settori produttivi: dalla logistica alla sanità, dall’automotive ai servizi finanziari e professionali senza dimenticare l’industria 4.0. Nell’automotive l’utilizzo di questa specifica tecnologia è tra i più conosciuti. Rendere le auto totalmente autonome nella guida e completamente connesse, fino ad arrivare già nel 2035 ad avere più del 75 per cento di veicoli con guida totalmente autonoma. Proiezione che certo solleva dubbi e considerazioni etiche, specie se si considera un sondaggio di qualche anno fa su come si sarebbe dovuto comportare l’algoritmo nel caso di un incidente. A oltre due milioni di persone di oltre 200 paesi fu chiesto cosa scegliere tra la vita di un bambino, di un anziano o di un gruppo di più persone. Al di là delle risposte diverse – anche in riferimento alle diverse zone geografiche – il tema etico resta di difficile soluzione.
Gli stessi dubbi chiaramente sono presenti nei settori della sanità, della finanza della logistica: sono interrogativi che riguardano il valore della vita umana, della sicurezza di interi Peesi e della dignità del lavoro. C’è chi oltre ai vantaggi nell’economia e nella produzione, azzarda previsioni di vantaggi e progressi anche nel mercato del lavoro, in termine di abolizione dei lavori più dequalificati, ripetitivi e pericolosi sostituiti da nuove professioni, più ricche di competenze e più remunerate. Ma al momento nell’attuale mercato del lavoro stiamo facendo i conti più con gli inconvenienti che con i vantaggi. Basta vedere ciò che accade nel settore della logistica, dove gli algoritmi gestiscono la vita di milioni di persone. E dove le grandi multinazionali, come Amazon, attraverso il dominio delle piattaforme informatiche incentivano l’esternalizzazione della produzione e dei servizi rendendo il lavoratore sempre più debole e povero. Situazione che accade anche nel food delivery e nei servizi finanziari.
Oltretutto, mentre nelle precedenti rivoluzioni industriali dopo una iniziale distruzione di posti di lavoro ormai obsoleti, l’utilizzo delle macchine portò a una creazione di nuovi lavori, questa volta sembra non essere così. Stiamo infatti vivendo una fase di forte accelerazione della parcellizzazione del mercato del lavoro e una destrutturazione del quadro giuridico dei conseguenti rapporti. Ci sono scelte urgenti che il sindacato – insieme con le Istituzioni europee e nazionali – deve compiere, perché queste incideranno sul futuro di giovani, che se oggi hanno la fortuna di essere occupati, difficilmente si ritrovano un lavoro dignitoso. L’incertezza è imperante, ma l’attuale tasso di sostituzione di lavoro tradizionale con lavoro digitale è negativo, ed è sicuramente in atto un forte aumento di lavoratori self employment e un maggior numero di ragazzi e ragazze che pur di mettere insieme il necessario per sopravvivere devono cumulare diversi ruoli lavorativi e pluriattività. La continua richiesta di flessibilità e i salari sempre più bassi spalancano le porte a una sfida difficile, a una partita a scacchi complessa, che però il sindacato non può permettersi di perdere.
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