Il primo a lanciare l’allarme è stato il direttore generale dell’Oms, Tedros Ghebreyesus: «Non stiamo solo combattendo un’epidemia; stiamo combattendo un’infodemia. Le fake news si diffondono più velocemente e più facilmente del Covid 19 e sono altrettanto pericolose». Un allarme reale, confermato dalle prime ricerche: a ottobre un rapporto del National Center for Disaster Preparedness della Columbia University ha stimato il numero di morti evitabili per Covid-19. A fronte di 217mila americani deceduti, l’analisi ha concluso che almeno 130mila di quelle morti avrebbero potuto essere evitate, la stragrande maggioranza delle quali semplicemente facendo sì che le istruzioni sull’utilizzo della mascherina e le altre tecniche di riduzione del rischio venissero percepite correttamente.
Ma cos’è, precisamente, l’infodemia? La definizione più corretta è la seguente: una sovrabbondanza di informazioni – buone o cattive – che rende difficile per le persone prendere decisioni per la propria salute. Colpisce il fatto che non esista una reale differenziazione tra informazioni reali e fake news: l’infodemia è causata semplicemente dalla sovrabbondanza di informazioni cui il cittadino viene sottoposto. Si ripresenta così il problema, già sperimentato agli albori di internet, dell’information overload: chiunque abbia effettuato una ricerca di informazioni utilizzando un motore di ricerca ha sperimentato un senso di oppressione di fronte alle migliaia di risultati ottenuti, che occorre vagliare, selezionare e studiare. La situazione attuale, purtroppo, è ancora più difficile da gestire. Se, infatti, quando cerchiamo qualcosa su un motore di ricerca siamo noi a gestire il processo (la cosiddetta metodologia «pull»), nel mondo dei social media, dove l’infodemia prospera e si diffonde, l’informazione ci arriva addosso a valanga (si parla in tal caso di informazione «push») non lasciandoci vie di scampo. Le strategie per contrastarne la diffusione sono note, ma il punto dolente è legato al fatto che esse si basano su una collaborazione attiva da parte della persona esposta. Il successo della disinformazione, la sua capacità di essere così pervasiva e così veloce, è strettamente legato al modo di ragionare e formarsi delle idee da parte di ciascuno di noi. Esistono numerose teorie al riguardo, ma la più famosa è probabilmente quella del pensiero lento – pensiero veloce, sviluppata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman.
Secondo la teoria, il cervello umano può funzionare in due modalità: quella veloce, ossia quella usata nella maggior parte dei casi, che ci consente di rispondere immediatamente e con un minimo spreco di energie, e quella lenta, deputata al ragionamento razionale e al senso critico, adatta solo in quelle situazioni in cui si vuole approfondire un pensiero. Il problema nasce dal fatto che l’attivazione del pensiero lento è una funzione cosciente, ossia necessita di uno sforzo deliberato per poter partire, e in più tale modalità è estremamente dispendiosa. In più, il pensiero veloce è costruito in maniera da accettare come vera la prima soluzione plausibile che gli viene presentata, senza preoccuparsi della veridicità dei presupposti: quest’ultimo, infatti, è un problema del pensiero veloce. Non a caso i diffusori di fake news preferiscono utilizzare esempi, linguaggio e considerazioni semplici, dirette, poco complesse! È una strategia mirata, che funziona perché il pubblico di riferimento è quasi sempre in modalità «pensiero veloce». La prima difesa contro la misinformazione, dunque, è il nostro pensiero razionale.
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