La letalità del Covid 19 in Italia nella seconda fase dell’epidemia è del 2,4 per cento, più bassa rispetto a quella della prima fase durante la quale però l’accessibilità rallentata ai test diagnostici e la diversa distribuzione geografica dei casi potrebbero aver fornito un dato distorto. Il calcolo è contenuto in un rapporto dell’Istituto Superiore di sanità, dove sono presentate anche le stime a livello regionale e in riferimento alle diverse fasi dell’epidemia, da cui emerge che le differenze tra regioni appaiono meno evidenti alla luce della diversa struttura demografica e della diffusione dell’epidemia nel tempo. Secondo il report tra i casi confermati diagnosticati fino a ottobre, la percentuale di decessi standardizzata per sesso ed età – il cosiddetto Case Fatality Rate (Cfr) è stata complessivamente del 4,3 per cento, con appunto ampie variazioni nelle diverse fasi dell’epidemia: 6,6 per cento durante la prima fase (febbraio-maggio, 1,5 per cento nella seconda fase (giugno-settembre) e 2,4 per cento tra i casi diagnosticati nel mese di ottobre.
Il focus sulla letalità del Covid è stato condotto utilizzando il database dei casi confermati con test molecolare e notificati al sistema di sorveglianza da inizio epidemia al 31 Ottobre 2020 dalle regioni. In particolare, sono stati conteggiati i decessi avvenuti entro 30 giorni dalla diagnosi, e il Cfr è stato calcolato standardizzando i tassi per tener conto delle differenze regionali nella struttura demografica della casistica. Il Case Fatality Rate standardizzato presenta una variabilità tra regioni, con i più alti valori osservati in Lombardia (5,7%) ed Emilia-Romagna (5,0%), mentre i livelli più bassi sono stati osservati in Umbria (2,3%) e Molise (2,4%). «Nell’interpretare le differenze regionali è importante tenere in considerazione la tempistica con cui l’epidemia si è manifestata nei diversi ambiti territoriali – si legge nel documento dell’Iss – L’epidemia ha colpito prevalentemente l’area settentrionale del Paese durante la prima ondata, per poi estendersi più diffusamente sull’intero territorio nazionale nelle fasi successive. Questa disparità nella distribuzione dei casi nel tempo potrebbe spiegare parte delle differenze del Cfr regionale riferite all’intero periodo esaminato».
Il confronto con l’Europa. I dati disaggregati per sesso, classe di età e fase epidemica, così come analizzati nel rapporto, non sono disponibili per altri paesi Europei e pertanto non è metodologicamente corretto eseguire un confronto sulla letalità del covid. È comunque opportuno notare che i Case Fatality Rate standardizzati utilizzando la popolazione europea standard come riferimento sono risultati inferiori a quelli calcolati usando come riferimento la popolazione italiana residente. Questo suggerisce che la struttura per età relativamente più anziana della popolazione Italiana possa spiegare in parte le eventuali differenze con gli altri Paesi. L’unico confronto possibile a livello internazionale è basato sull’eccesso di mortalità registrato durante l’epidemia rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. Le stime fornite da Eurostat riguardo la variazione percentuale dei decessi registrati nel periodo febbraio ottobre 2020 rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dei quattro anni precedenti mostrano come l’Italia, rispetto alla stima complessiva riferita ai 27 paesi membri dell’Ue, abbia avuto, a eccezione della prima ondata epidemica, un eccesso di mortalità inferiore alla media Europea (13,1% vs 17,1% nel mese di ottobre).
Cos’è il Case Fatality Rate. In alcuni casi la letalità, ossia la proporzione di decessi che si verificano in una popolazione infetta, è stata calcolata utilizzando dati aggregati cumulati riferiti ai casi e decessi notificati a una certa data. Questa tipologia di stima può però risentire di distorsioni. «Le stime puntuali – spiega l’Istituto superiore di sanità – e il loro confronto nello spazio e nel tempo possono ad esempio essere distorte da differenze e modificazioni nell’accessibilità ai test diagnostici. Facciamo un esempio: una ridotta capacità di tracciamento di casi asintomatici conduce a una di sottostima della popolazione infetta esposta al rischio di morte e alla conseguente sovrastima della letalità. In questi casi, è più appropriato utilizzare il termine case fatality rate che è calcolato esclusivamente sulla popolazione dei casi noti, ossia quelli diagnosticati e notificati. Inoltre, l’utilizzo di dati aggregati cumulati a una certa data non tiene conto dell’intervallo di tempo che intercorre tra la diagnosi e l’eventuale decesso. In questa circostanza, i casi per i quali l’infezione è relativamente recente da non aver ancora potuto manifestare eventuali complicazioni fatali sono conteggiati nella popolazione infetta a rischio di decesso, causando così una sottostima del Cfr. Mentre il primo limite non può essere superato con i dati a disposizione, l’analisi presentata in questo rapporto è basata su dati individuali riferiti ai casi per i quali, tenuto conto di un possibile ritardo nell’aggiornamento delle informazioni, il tempo di osservazione del decorso clinico è stato di almeno 30 giorni dalla diagnosi».
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