Si chiama «Fortezza» il film diretto da Ludovica Andò ed Emiliano Aiello, interamente girato nella casa di reclusione di Civitavecchia in cui i detenuti vestono i panni degli ufficiali guardiani ideati dalla penna di Dino Buzzati, in una rilettura di uno dei romanzi del Novecento, «Il Deserto dei Tartari». Il lungometraggio, prodotto da Compagnia Addentro/Associazione Sangue Giusto in collaborazione con Cpa Uniroma3, sarà presentato domani alle 13 in anteprima al Teatro dell’istituto di Civitavecchia, dove e stato girato, e venerdì alle 15 al Maxxi, tra gli eventi della Festa del cinema di Roma, all’interno della sezione Festa per il sociale e per l’ambiente.
«Perfetta metafora dell’istituzione penitenziaria, la narrazione del film documenta la condizione carceraria, tra rassegnazione e speranza di riscatto – sottolinea Ludovica Andò, da molti anni impegnata negli istituti penitenziari italiani con attività per i detenuti, dai laboratori teatrali all’alfabetizzazione cinematografica». Prima di arrivare nelle sale «Fortezza» è stato uno spettacolo teatrale, presentato a Roma nell’ambito della quarta rassegna nazionale di teatro in carcere. Come per il teatro, anche per il cinema la limitazione si trasforma in stimolo, il vincolo in spinta creativa. «Girare un film in un luogo vincolato da restrizioni – dice Emiliano Aiello – obbliga a ripensare il tempo e lo spazio della ripresa, il tempo e lo spazio dei dialoghi, il tempo e lo spazio del silenzio, il tempo e lo spazio del vuoto. Spesso proprio la difficoltà di adattamento a questa nuova percezione della realtà crea nei detenuti squilibri emotivi e identitari. La malattia del carcere. Il malessere. Quel morbo che rode ma che lega, tanto da rendere poi inconcepibile la vita all’esterno».
“Dopo dieci anni di lavoro negli istituti penitenziari – racconta Andò – sentivo forte la frustrazione di non poter raccontare all’esterno quel miracoloso processo di trasformazione interiore che spesso ho visto attivarsi negli uomini che ho incontrato nei miei laboratori. L’utilizzo di classici della letteratura e del teatro si rivela immancabilmente come un potente risuonatore emotivo e intellettuale e, inserito in un più ampio lavoro sulla persona svolto in equipe con gli operatori dell’area educativa e sanitaria, può generare cambiamenti sensibili e duraturi. Fortezza permette di fissare questo processo e di condividerlo con la società esterna. Pur nella finzione del racconto, il film mostra degli uomini senza maschera, degli uomini trasparenti, in cui la corazza di pelle rigata, di tatuaggi, muscoli e cicatrici si scioglie nella profondità degli occhi, nella verità delle parole, spesso scritte da loro stessi». Fortezza racconta il carcere senza rivelarlo. Ma parla anche delle prigionie dell’anima, quelle che ognuno si costruisce quando si incastra nei meccanismi del quotidiano, quando lascia che il tempo scorra con la freddezza di un metronomo e smetta di essere viva pulsazione.
La casa di reclusione di Civitavecchia è uno dei più antichi istituti penitenziari italiani e si presta a interpretare l’idea del film: un luogo solido, fermo, inattaccabile. Attualmente è un istituto sperimentale a custodia attenuata e trattamento intensificato, dove i detenuti siglano un patto di fiducia entrando e hanno ampio margine di movimento nel tempo e nello spazio e in cui il trattamento (le attività artistiche e scolastiche, la formazione lavorativa, i rapporti con le famiglie, il percorso psicologico) è preponderante. Qui sono ospitati circa 80 detenuti con i quali i registi hanno iniziato a lavorare sul testo di Buzzati nel gennaio 2017. Dieci di loro sono i protagonisti del film. Alcuni sono attualmente liberi, altri in misura alternativa, altri ancora reclusi all’interno e coinvolti nelle attività dell’istituto. «Nel carcere i ristretti vivono l’esperienza artistica come momento di libertà osano tutto e mettono da parte ruoli e maschere che sono necessari per sopravvivere – concludono i registi – Negli anni abbiamo costruito legami molto profondi con coloro con i quali abbiamo avuto la fortuna di poter lavorare. L’idea di Fortezza nasce dunque proprio dal vissuto quotidiano, dalla giornaliera frequentazione di uno spazio-tempo diverso, e dalla riflessione politica sul ruolo degli istituti penitenziari e sulla loro rappresentazione all’esterno».
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