Parlare di precariato è ostico. Lo sono stato per anni, ora non più. Ma sono anche un giovane delegato, pertanto la difficoltà di parlarne è doppia. Il fenomeno e la parola sono di grande attualità, osserviamone per un momento l’etimologia. Dal latino precarius, che discende a sua volta da prex-precis. Riferibile cioè a qualcosa che si ottiene con la preghiera (prece). Riferibile cioè a un lavoro o altro, che si eserciti con il permesso e la tolleranza di altri, diremmo del prestatore. E che sicuramente non durerà per sempre o comunque entro e non oltre un tempo stabilito. Nella declinazione odierna il fenomeno si riferisce quasi esclusivamente al mercato del lavoro e definisce uno status di particolare debolezza e dipendenza nella categoria del subordinato.
È quasi un male endemico, non ne restano esclusi neanche quei settori che dovrebbero essere in teoria più protetti e garantiti come la scuola, la sanità, pubblico impiego e mezzi di informazione. Nella scuola altresì il fenomeno è divenuto così sfuggente e pesante da diventare quasi una deviazione di sistema. Ciò che più allarma sono gli scompensi sociali che questo fenomeno sta creando, non solo fra i lavoratori interessati, ma anche nelle loro famiglie. L’impossibilità di progettare, di costruirsi un futuro, una famiglia, accendere un mutuo e darsi un asset più consono e dignitoso per avere un ruolo più definito nella società, è la vera priorità. E tutto ciò inoltre, costringe in moltissimi casi le famiglie a diventare un argine sociale, il bancomat nazionale a cui si fa spesso ricorso per dare sostanza, aiuto e sostegno economico a migliaia di giovani. Ma tutto ciò è al limite. E quando alla fine sarà raggiunto il gap e saremo al salto generazionale, quando cioè per ovvi motivi, non ci saranno più genitori, nonni e quant’altro a fare da sponda e da spalla, ci sarà un vero disastro economico e sociale. Il precariato sta diventando sempre più un fenomeno strutturale. La politica non sa, non vuole trovare risposte e se le trova sono parziali, se non addirittura velleitarie. Il precariato arriva da lontano: a volte è stato un tentativo di risposta allo sfruttamento giovanile un po’ in tutto l’Occidente. L’Oriente e i paesi non avanzati rappresentano un universo a parte. In alcuni di questi con economie arretrate, ma non è sempre così (vedi Cina), ci sono addirittura fenomeni di schiavitù giovanile. Le risposte e le soluzioni suggerite dal mondo cosiddetto industrializzato non sono altro che inutili e sterili appelli. Peraltro continuiamo ad acquistare merci prodotte, sfruttando il lavoro giovanile dei suddetti Paesi.
Il lavoratore precario in questa società è un anonimus che soffre e spera. Una vita di privazioni, ricatti, bassi salari, mancanza di diritti. Per non parlare poi di quali saranno le conseguenze in caso di crisi aziendale. Chi pagherà per primo? Risposta scontata. Quindi schiena bassa e lavorare. Spesso e volentieri anche nella società cosiddetta civile viene considerato un cittadino di serie inferiore. Il grave rischio insito in tutto ciò, è che se non si otterranno parità di diritti per i precari, ci sarà un livellamento dei diritti verso il basso per tutti i lavoratori.
Qualche numero – Il primo dato è che i precari sono aumentati, mal retribuiti e sottopagati. Cresce esponenzialmente l’esercito del disagio sociale, tra il 2016 e il 2018 altre 140mila persone ed oltre, sono entrate in questo bacino. Il dato generale ci dice che in Italia ci sono circa 23,5milioni di lavoratori attivi di cui, i precari specificamente detti sono circa 3,3milioni. Ma per analizzare meglio le cifre bisogna tener conto appunto, dell’enorme area del disagio sociale. In questo calderone infatti, vi si trovano quasi 3milioni di disoccupati, i contratti part time tutto compreso, tutti i contratti a termine, le collaborazioni e tutt’altra serie di lavoratori non stabilizzati conseguenti alle agevolazioni del jobs act. In sostanza l’area del cosiddetto disagio sociale ammonterebbe alla stratosferica cifra di più di 9milioni di persone, fra inoccupati, precari sottopagati, a vario titolo e mansioni.
Quale migliore spia della grave situazione economica e sociale del paese? –Una menzione breve ma specifica va fatta per spiegare il fenomeno dello staff leasing, che ha avuto una enorme impennata in coincidenza dell’entrata in vigore del Decreto Dignità. Ci sono stati è vero, nuovi e numerosi dipendenti assunti a tempo indeterminato, ma non dalle aziende presso cui erano occupati e che avrebbero dovuto stabilizzarli, ma bensì dalle agenzie interinali di riferimento. In sostanza, le società di somministrazione assumono loro stesse i dipendenti, per poi prestarli alle imprese finché queste ne avranno necessità. In caso di crisi, peraltro, il leasing cessa senza nessuna difficoltà o problemi per le aziende. Quanto ai lavoratori, la furbata – perché tale è – è vero che offre una parziale possibilità un po’ più stabile per loro, ma pur sempre precaria, e che sconta peraltro una disparità di trattamenti e diritti sindacali. Una pratica opportunistica e di forte disagio, ad esclusivo vantaggio delle aziende.
Quale futuro? Tutto da costruire. Le responsabilità della politica, delle classi dirigenti e padronali, sono visibili e sotto gli occhi di tutti. Ma anche il sindacato non è esente da colpe. Tutto ciò deve mutare. Tutti i lavoratori precari a qualsiasi titolo di questo Paese devono sentirsi figli e rappresentati a tutti gli effetti. Non possono continuare a vivere e a lavorare accontentandosi del presente e sperando nella buona sorte domani. C’è bisogno di una piccola rivoluzione copernicana, c’è bisogno di risposte e di certezze, di diritti e di un ritrovato senso di giustizia e di condivisione. Ma ora e subito. Questo è ciò di cui c’è bisogno per loro, per il sindacato e per il paese. E tutti attendiamo che avvenga. Bisogna essere pronti.
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