Le misure del reddito di cittadinanza, la cui implementazione vuole essere il tratto distintivo di questo Governo, così come per la riforma sulle pensioni, segna invece una distanza tra le intenzioni iniziali e le misure effettivamente realizzate.
In generale, sono da evidenziare due aspetti su tutti: la constatazione che già la denominazione sia stata tradita, in considerazione del fatto che il decreto si concentra sulla povertà piuttosto che sulla cittadinanza. Conseguenza di ciò la rilevazione che l’impalcatura generale altro non è che una rimodulazione del già esistente Reddito di inclusione (Rei), ossia una misura che si proponeva di combattere la povertà assoluta. Con una veloce analisi, verifichiamo gli attori protagonisti della filiera produttiva del reddito di cittadinanza. Se l’impianto del Rei era relativamente semplice, quello del reddito prevede innovazioni che rendono lo schema molto più complesso. Il coinvolgimento di numerosi soggetti, la diversificazione delle misure di erogazione dei servizi, l’assunzione di nuovo personale e la riorganizzazione di formule esistenti prevederanno una serie di snodi burocratici che rallenteranno la macchina organizzativa: un rifacimento di procedure e software, il rilascio di pareri dell’Autorità garante della privacy, circolari interpretative da elaborare con più amministrazioni, coinvolgimento degli enti locali, bandi e concorsi. A ciò si aggiunge il problema del vincolo della residenza in Italia da 10 anni (gli ultimi due consecutivi) ai fini della percezione del reddito, il che, escludendo numerosi immigrati regolari, rischia anche di rendere illegittima la legge dal punto di vista costituzionale.
Alla luce di tutto ciò, ci sembra difficile poter rispettare il cronoprogramma illustrato dal Governo. Tema delicato è poi quello delle politiche attive del lavoro. Anche qui, il nostro giudizio non è positivo, poiché il Governo ambisce a rilanciare le politiche attive del lavoro nel loro insieme, non avendo però i numeri a supporto di questa ambizione. La platea del reddito di cittadinanza considera 1,4 milioni di persone riattivabili al lavoro, mentre nel complesso si contano 2,8 milioni di persone in cerca di occupazione, 2,3 milioni di giovani inattivi, 1 milione di studenti potenzialmente coinvolgibili, quasi 1 milione di over 55 che hanno perso il lavoro e oltre 1 milione di donne con difficoltà a conciliare vita familiare e vita professionale. Perché dunque le risorse delle politiche attive del lavoro devono concentrarsi su un’offerta di lavoro potenzialmente caratterizzata da forte disagio sociale? Non è quello un compito da devolvere al contrasto alla povertà? E perché è prevista la facoltà di rifiutare ben 3 proposte di impiego?
Il sistema degli incentivi alle aziende convince ancor meno. Legare l’incentivo al residuo temporale del sussidio non ha effetto attrattivo per le imprese, che si vedono anche vincolate nell’obbligo di assumere a tempo indeterminato (quando oltre l’80% delle assunzioni sono a termine, stagionali o interinali). Inoltre, il sistema rischia di incentivare il rifiuto di “lavori poveri”, sconvenienti rispetto alla percezione del reddito di cittadinanza. Altro aspetto di difficile comprensione è la pretesa di rilanciare la capacità di intermediazione dei Centri per l’impiego, attualmente scarsa (3,2%). Inoltre, qualora dei soggetti privati si accreditassero nella stipula del Patto per il lavoro, avrebbero una premialità solo in caso di assunzione (full time, a tempo indeterminato e con clausola di non licenziamento per 24 mesi) se l’assunzione non avvenisse (caso non remoto viste le difficili condizioni), non sarebbe riconosciuto il lavoro di accoglienza, profilazione e orientamento, che comunque prevedono dei costi. Infine, la premialità è riconosciuta solo alle agenzie private, mentre nulla è previsto per i Centri per l’impiego, il che crea squilibri nella concorrenza.
Il passaggio più controverso del decreto, tuttavia, è quello relativo ai regimi sanzionatori, che prevedono un contenuto minaccioso, ma di scarsa applicabilità. I limiti temporali per adempiere all’esecuzione delle procedure a carico dell’Inps sono a dir poco ottimistici, la pena della reclusione pende sopra i lavoratori quando dovrebbero essere perseguibili i datori di lavoro, ma soprattutto l’intera impalcatura si poggia sull’assenza di anagrafi e banche dati, mancanza che rende il tutto abbastanza utopistico. Del resto, già oggi la Guardia di Finanza verifica che il 60% delle dichiarazioni Isee sono false: confrontare questa percentuale con la mole numerica implicata dal reddito di cittadinanza dà la cifra dell’elefantiaca burocrazia che coinvolgerebbe la Guardia di Finanza stessa, l’INPS e tutti i soggetti coinvolti. In conclusione, restano da fare alcune annotazioni. In primis va detto che – secondo noi – la povertà assoluta è per metà dovuta alla povertà educativa e alla marginalità sociale e l’ampliamento dei sussidi potrebbe aumentare la propensione di qualcuno dei beneficiari ad utilizzare in modo opportunistico le risorse disponibili, oltre ad aumentare i livelli di sfiducia dell’imprenditoria verso i servizi pubblici
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