Siamo passati dall’essere un paese prevalentemente agricolo a una delle principali potenze industriali del mondo. Un cammino iniziato negli anni sessanta dello scorso secolo e culminato negli anni novanta. Siamo ancora – nonostante la crisi degli ultimi dieci anni – il secondo Paese manufatturiero d’Europa, dopo la Germania. Ma complice la globalizzazione – che ha portato nel mercato degli scambi mondiali paesi con centinaia di milioni di abitanti come la Cina, l’India, il Brasile – i quali, soprattutto nella manifattura, producono a bassissimi costi attraverso lo sfruttamento dei lavoratori, anche dei minori, e il mancato rispetto delle più elementari norme ambientali, siamo di fronte ad una sfida vitale per il nostro sistema economico e sociale.
Per provare a vincerla dobbiamo pensare a un cambiamento totale del modello industriale, a una sorta di nuova reindustrializzazione, come dopo una guerra. Se non vogliamo finire definitivamente ai margini dei processi economici e industriali, magari abbracciando fantasiose politiche di «decrescita felice» o più verosimilmente infelice, che portano inevitabilmente a un depauperamento del tessuto produttivo e industriale del nostro Paese e del nostro territorio, dobbiamo assolutamente rigenerare il tessuto industriale, collegando il settore industriale più maturo con il terziario avanzato. Passare cioè dalla tradizionale industria manifatturiera, all’industria 4.0 puntando soprattutto sui settori più innovativi e ad alto valore aggiunto.
Occorre, urgentemente, perché ormai assente da molti anni, una nuova politica industriale declinata a livello territoriale. E’ dal territorio, infatti, che si possono più facilmente intercettare domande di nuovi beni e servizi che scaturiscono da bisogni ancora diffusamente insoddisfatti che provengono prevalentemente dalle periferie. Periferie – non solo delle grandi città – ma anche quelle aree di confine come i piccoli comuni montani disagiati piuttosto che le piccole province del mezzogiorno. Da queste «periferie» marginali arriva una forte richiesta di soddisfazione di bisogni primari e secondari che possono diventare una nuova opportunità per investire in attività che creano nuovi posti di lavoro e migliorano l’integrazione e la qualità della vita delle fasce più deboli della popolazione.
Per uscire dal ristagno economico, che ci accompagna ormai da troppi anni, si devono trovare nuovi strumenti di politica industriale in grado di affiancare efficacemente altri strumenti macroeconomici come quello fiscale e monetario che utilizzati da soli, come lo sono stati negli ultimi anni, non si sono dimostrati molto efficaci. È interessante pensare a strumenti reali che guadano principalmente allo stimolo della domanda interna, fatta di nuovi beni e nuovi servizi, per mettere in campo investimenti tesi a incentivare sviluppo e crescita sociale. Per immaginare una nuova politica industriale occorre quindi individuare delle priorità che partono principalmente dal territorio. Bisogni che partono dalle periferie urbane e dai piccoli centri perlopiù isolati, o da medie città del mezzogiorno afflitte dalla criminalità organizzata e dalla mancanza storica di lavoro e di Stato.
Una volta stabilito che la priorità è partire dal territorio, occorre individuare i settori nuovi su cui investire risorse pubbliche e private e su quali politiche le istituzioni devono puntare per rendere un territorio attrattivo e competitivo. La nostra regione può essere uno dei driver principali di questa idea di politica industriale. Nel nostro territorio esiste già una forte realtà radicata di piccole e medie imprese che hanno saputo innovarsi ed essere competitive anche a livello internazionale in settori innovativi e moderni quali: l’aereo spazio, l’agrifood, l’audiovisivo, l’editoria, l’economia circolare e le energie alternative, il settore farmaceutico, trasporti e logiistica, ict ed elettronica, moda design e arredo, edilizia sostenibile.
È evidente che occorre individuare una nuova governance multisettoriale, in cui i vari livelli territoriali possono avere un ruolo forte, ognuno per la sua competenza, nell’individuazione di idee per lo sviluppo e nella ricerca di fondi per il finanziamento di opere pubbliche anche con l’intervento del privato. Pensare che nel prossimo futuro si riesca a far ripartire la domanda interna in maniera evidente per uscire dalla crisi economica, potrebbe risultare illusorio. C’è bisogno per il sindacato – e la Uil per le sue origini laiche può essere facilitata in questo – di affermare idee forti. Dobbiamo riflettere sul fatto che attraverso le nuove tecnologie, le piattaforme informatiche, i grandi operatori globali, i cosiddetti over the top, la ricchezza si sta sempre di più concentrando nelle mani di pochissimi a scapito dei più poveri e soprattutto della vecchia classe media che sta scivolando inesorabilmente verso la povertà.
Come sindacato ci dobbiamo porre in maniera forte e chiara l’obiettivo di redistribuire la ricchezza, che però secondo noi, non deve avvenire attraverso sussidi che non generano né lavoro né ricchezza. Come ha detto Papa Francesco, è il lavoro che dà dignità alle persone e non i sussidi. La nuova redistribuzione deve avvenire attraverso un massiccio piano di investimenti pubblici e privati che vada verso il rilancio di una nuova reindustrializzazione del Paese nell’ottica dell’industria 4.0. Questo nuovo piano Marshall va messo in campo soprattutto a livello territoriale anche attraverso nuove forme di rinazionalizzazione di settori dell’economia strategici. La sinistra non può essere contraria al reddito di cittadinanza e contraria allo stesso tempo alla nazionalizzazione di reti strategiche per il paese senza produrre una politica industriale alternativa, pena di essere considerata, inevitabilmente, estabilishement.
0 commenti
Trackback/Pingback