È raggiante Marina, è un fiume in piena. Descrive con emozione la nuova casa dove i suoi bimbi possono finalmente avere una camera tutta per loro e corrono tra le stanze vuote felici di avere “così tanto spazio intorno”, dopo aver trascorso gli ultimi tre anni in un garage. Ha gli occhi lucidi nel raccontare della nuova abitazione, ancora in attesa dell’allaccio del gas e con pochi mobili, prevalentemente ricevuti dagli amici e da chi si è adoperato per far sì che lei, una donna sola con due bambini al seguito, vittima di violenza, ottenesse una casa popolare. Le spettava, dicono dall’Uniat, l’ente della Uil che si occupa di questo, eppure non l’aveva ancora ottenuta, perché avevano sbagliato il conteggio dei punti necessari per essere inseriti in graduatoria. Da qui, da un punto finalmente fermo ricomincia la sua risalita, la rinascita. “Adesso sono più tranquilla – racconta commossa – i miei piccoli hanno un posto dove stare, dove giocare e studiare e non vivo più nell’incubo che possano portarmeli via. Sono felice. Ho cominciato a cercare un lavoro. Bisogna ricominciare”.
Una storia pesante, molto, alle spalle e la gioia di chi ce l’ha fatta a uscire dall’incubo e a ricostruire una vita. Una vita che ricomincerà tra queste nuove mura, simbolo di solidità, di protezione, di calore umano. Quello stesso che a Marina è mancato per anni. Quello che è mancato ai suoi bambini, trascinati da una parte all’altra del Paese per sfuggire all’orco che ha distrutto per anni le loro giornate e cancellato l’innocenza e la spensieratezza dell’infanzia da quei volti di fanciulli, resi troppo rapidamente adulti. Aveva solo 19 anni quando si innamorò di quell’uomo il cui ricordo la fa sobbalzare ancora oggi. “È stato il mio primo amore – dice – ero coinvolta. Talmente tanto da giustificare il suo primo schiaffo dopo un mese che ci frequentavamo. Pensavo fosse colpa mia”. La storia andò avanti e gli schiaffi pure. Ma Marina continuava a rimanere con lui. Pian piano i suoi meravigliosi occhi verdi persero la loro luce e lei si aggrappava alla speranza di un cambiamento per amore. Le violenze divennero sempre più frequenti e, tra un rapporto costretto e l’altro, Marina rimase incinta. Era terrorizzata. “Speravo di essere sterile – dice – e per un anno ho creduto fosse così, visto che non rimanevo incinta come lui invece sperava. Voleva un figlio maschio da me, a tutti i costi. Erano due gemelli, invece. Un maschio e una femmina. Una femmina non voluta sin dal primo istante e ancora di più quando, dopo la nascita, scoprimmo che aveva un lieve ritardo. Per lui era un’ulteriore conferma che le femmine non servono a nulla”.
Man mano che i bambini cominciavano a crescere si accanì sempre più contro Marina e la piccolina. Iniziò a molestarla. A far loro del male. Finirono in ospedale. Marina voleva andar via da quell’incubo, ma non sapeva come. “Ci chiudeva in casa per tutto il tempo in cui lui stava fuori e sfogava su me e la bambina la sua rabbia, il suo odio verso il padre alcolizzato, il suo rancore per quella figlia femmina non voluta – dice – Un giorno dimenticò di chiudere a chiave la porta e pensai che se fossimo rimasti lì saremmo morti, se fossimo scappati pure. Ma morire da liberi sarebbe stato decisamente meglio. Mi feci coraggio, presi i bambini e andai via, senza portare nulla con noi, se non i vestiti che indossavano. Andammo in ospedale e poi da qui in un centro antiviolenza, da dove ho avviato il percorso legale. Ma eravamo troppo vicini a lui e non ci dava tregua. Avevo paura. So che ce l’avrebbe fatta pagare. Non gli mancavano i mezzi, ne’ i modi per farlo. Così andai via dal centro, presi un treno con i bambini e abbiamo cambiato città, sperando di non essere cercati e soprattutto ritrovati. Ho ottenuto l’allontanamento di lui da me e dai piccoli e da qualche anno non vedono più il papà. Non chiedono di lui ed evitano qualsiasi riferimento. Anche perché temono di riaprire in me le ferite. Mi proteggono a loro modo. Si comportano quasi da adulti, ma sono enormemente fragili. Il maschietto è spesso arrabbiato con tutti. La femminuccia è dolce ma provata. Dagli abusi subiti, dalle tante perizie a cui è stata sottoposta. Anche l’iter giudiziario è stato un incubo per lei. È stata ascoltata più volte, ha dovuto raccontare del papà, di quello che le faceva. Adesso basta. Adesso non mi interessa più come andrà a finire il processo, l’importante è che i bambini siano tutelati. Non voglio che siano sottoposti ad altre perizie. È troppo dura per loro”.
Ha bisogno di sfogarsi Marina, prosegue senza interruzioni il suo racconto. E ringrazia, sempre, dell’ascolto, dell’aiuto che le è stato dato per l’ottenimento della casa, si scusa per l’emozione, per i racconti, perché teme di disturbare narrando. È determinata nelle parole che utilizza ma anche lei ancora fragile. Cerca di apparire forte, ma i suoi modi da bambina fuori posto tradiscono il suo dolore ancora vivo, il suo senso di inadeguatezza. Si illumina davvero solo quando descrive la nuova abitazione. Rappresenta il suo riscatto. Il suo modo per dire ce l’ho fatta.
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