Il lavoro è al centro della nostra vita. Fin da bambini ci domandiamo cosa vogliamo fare da grandi; passiamo gran parte della nostra giovinezza sui banchi di scuola e università per prepararci al lavoro; poi gran parte delle nostre giornate sul posto di lavoro. Il lavoro è oggi al centro del dibattito politico, economico e sociale. Esso si presenta multiforme: in molti casi è fatica e alienazione, in altri è precarietà, e ancora dignità o soddisfazione. Oggi più che mai, di fronte alle crescenti disuguaglianze e alle grandi sfide tecnologiche e sociali che ci si presentano all’orizzonte, è necessario mettere al centro del dibattito politico e sindacale il ruolo che il lavoro occupa all’interno della nostra società. Il punto di partenza non può che essere una riflessione generalizzata sulle grandi trasformazioni in corso nel mondo del lavoro.
Le stime occupazionali ci consegnano un futuro, dove con le nuove tecnologie scomparirà gran parte dei lavori che oggi conosciamo, ma ne nasceranno di nuovi. Le trasformazioni tecnologiche e la digitalizzazione dell’economica andranno però governate e orientate, e non a favore del capitale, ma del benessere e della qualità della vita delle persone. Esiste dunque un tema, da affrontare comunemente, con coraggio e senza preclusioni, ed è quello della riduzione dell’orario di lavoro. Partiamo subito da una premessa: in Italia si lavora di più rispetto alle maggiori economie europee. La Francia è scesa sotto le 40 ore settimanali da oltre un decennio; la Germania ha recentemente aperto alla possibilità di derogare le 35 ore, cosi come in Belgio; in alcuni Paesi scandinavi e del nord Europa si oscilla dalle 35 alle 29 ore dell’Olanda. L’Italia è pero anche quella, tra le principali economie, con i peggiori tassi di disoccupazione e crescita; ed è qui necessaria una seconda premessa: la riduzione dell’orario di lavoro negli altri Paesi europei ha empiricamente dimostrato che le economie non ne hanno risentito e hanno al contrario beneficiato di una crescita della produttività.
Se si partisse dal presupposto che le trasformazioni tecnologiche e digitali vadano utilizzate nell’interesse comune; una riduzione dell’orario di lavoro permetterebbe di raggiungere due obiettivi: liberare del tempo libero e combattere la disoccupazione. Il più grande risultato sarebbe però un altro: rimettere in discussione la ineguale distribuzione della ricchezza economica degli ultimi 20 anni. La riduzione dell’orario di lavoro agirebbe infatti da leva socio-economica riequilibrando la ricchezza in un contesto dove le disuguaglianze continuano a crescere e il 20 per cento più ricco degli italiani detiene oltre il 65 per cento della ricchezza nazionale. Le disuguaglianze economiche in realtà ne mascherano delle altre; come quella tra chi ha pieno controllo del proprio tempo e chi no: la povertà di tempo e quella economica vanno spesso a braccetto. Oggi in Europa le disuguaglianze sociali sono inversamente proporzionali alla media delle ore lavorate. Ne sono la dimostrazione, i Paesi europei maggiormente sviluppati. Dove si lavora meno, c’è maggiore produttività e ci sono minori disuguaglianze.
È dunque giunto il momento di mettere al centro del dibattito la questione della riduzione dell’orario di lavoro. È giunto il momento di tornare a ragionare di un modello economico e politico più giusto ed equo magari traendo spunto dagli insegnamenti di Keynes il quale in un periodo di cupezza e stagnazione guardava con speranza alle straordinarie opportunità offerte dal progresso, teorizzando un futuro dove le nuove tecnologie avrebbero contribuito a migliorare la qualità della vita delle persone e del lavoro; sarebbero state utilizzate per ridurre non il numero di lavoratori, ma le ore lavorate e creare una società più equa. Oggi, di fronte ai rischi di un ritorno al cottimo (digitale), sarebbe una straordinaria risposta di giustizia sociale e democrazia.
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