«Non assumiamo giovani donne, anche se con esperienza ed ottima formazione, la maternità è un rischio elevato che non possiamo permetterci».E’ lapidario Davide, 42 anni, socio di un noto esercizio commerciale al centro di Roma. Inutile tentare di farlo ragionare. Le parole del professionista, padre di due bambini, fotografano con nitidezza lo stato dei fatti: la maternità per le donne italiane continua a rappresentare un ostacolo al lavoro ed alla carriera, perchè per le aziende la donna che diventa madre viene vista quasi sistematicamente come un problema. I dati, d’altronde, parlano chiaro: il reddito delle lavoratrici con contratto a tempo determinato subisce un taglio del 35% nei primi due anni successivi alla nascita del figlio, del 10% tra le donne con contratti stabili, mentre una madre su quattro lascia il lavoro nei ventiquattro mesi successivi al parto, fenomeno in aumento negli ultimi anni (fonte: Inps). Questo sempre che le donne riescano ad accedere al mondo del lavoro. Il tasso di occupazione femminile del Lazio si attesta al 51% contro il 67,2% di quello maschile, con uno scarto superiore a 16 punti percentuali. Performance appena migliore per la Capitale con un indice del 54,4%. Lo squilibrio occupazionale attraversa l’intera penisola.
Se però disparità di accesso o salariali, contratti precari, orari e organizzazione del lavoro poco amichevoli, servizi per la prima infanzia scarsi e costosi non dovessero bastare a scoraggiare le donne, rimane pur sempre il mobbing, che secondo l’Osservatorio nazionale colpisce in Italia circa mezzo milione di lavoratrici ogni anno per maternità o per richieste tese alla conciliazione lavoro/vita familiare. «Non si può mandare via una dipendente incinta o appena rientrata dalla maternità, la legge non lo consente, così le aziende tendono a risolvere il problema senza sporcarsi troppo le mani, portandola con il pressing psicologico a chiedere le dimissioni. Il mobbing strategico è l’alternativa di comodo ai mancati investimenti in welfare aziendale o alle riconversioni industriali – commenta Laura Latini della segreteria regionale Uil – Purtroppo manca ancora una legge nazionale sul mobbing, per cui le battaglie legali sono lunghe e senza esclusioni di colpi, soprattutto nelle piccole realtà”. A dispetto degli adagi nazional-popolari sempre pronti a celebrare la mamma sopra ogni cosa, non è un Paese per mamme, né per donne. Così le culle restano vuote (per il 2016 l’Istat certifica un nuovo minimo storico con 474mila nuovi nati, circa 12mila in meno rispetto al record negativo del 2015), e l’Italia rimane la nazione europea con il tasso di natalità più basso (1,3 per donna), non più compensato dalle nascite da coppie straniere immigrate (nel 2016 si stimano 61mila nuovi nati tra gli stranieri, nel 2015 erano 72mila) che incontrano le stesse difficoltà delle coppie italiane ad avere figli, e spesso in forma ancora più esasperata. Una vera e propria bomba demografica ad orologeria che ci travolgerà. «Lavoro come colf in Italia dal 2003, ma non ho mai neanche pensato di fare un figlio» racconta Anisoara, 35 anni, romena «vivo in provincia di Viterbo e la mia giornata inizia alle 6 della mattina e finisce alle 19, collaboro con 14 famiglie e solo con una di queste ho un contratto regolare, dove potrei mai trovare il tempo e le risorse per crescere un bambino?».
Donne e lavoro, che fatica! Secondo uno studio del sindacato in collaborazione con Eures, la parità imprenditoriale di genere nella nostra regione, mantenendo le condizioni attuali, sarebbe realizzabile tra 200 anni. Il gap regionale tra imprese al maschile ed al femminile sarebbe pari a 48,2 punti percentuali, con la Capitale in ultima posizione tra tutte le province. Sarà per questo che quando le donne ci riescono la faccia ce la mettono volentieri. Come Rita Bellazecca (48 anni) e Antonella Bernardi (51), entrambe con figli e marito, proprietarie in società di un asilo nido privato nel comune di Formello, a nord di Roma, che oggi conta 8 dipendenti. «Siamo due maestre amiche da sempre, il sogno era quello di avviare una nostra attività per la cura dei bambini e di servizio alle famiglie in una realtà che non vede la presenza di nidi comunali». Se chiedo loro in cosa o in chi abbiamo trovato maggiore sostegno nel raggiungimento dell’obiettivo rispondono senza esitazioni: «determinazione e solidarietà reciproca. Bisogna crederci e fare gruppo». In direzione ostinata e contraria. La disparità di genere si combatte anche così.
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