Vulnerabili, emarginate, spesso invisibili, vittime di una doppia discriminazione. Doppia perché la violenza di genere non conosce limiti né barriere. Anzi. Accade spesso che più disparità si uniscano e saldandosi ne generino multiple. E’ il caso della donna con disabilità, doppia discriminazione. Ha provato a riassumere questa condizione la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, dedicando a questo tema un focus specifico. Quel che emerge dagli atti parlamentari è una triste quotidianità che isola, ghettizza, nasconde. E che nega la dignità delle persone. Un quadro che rimanda alla notte dei tempi, al medioevo. Non certo ai giorni nostri.
«Non è un essere umano, non è una cittadina, bensì un essere senza diritti, priva di sesso, corpo, intelligenza, desideri, emozioni». La rappresentazione del mondo che circonda la donna con disabilità la fornisce alla Commissione del Senato della XVII legislatura – che ha terminato i lavori lo scorso febbraio – la dottoressa Luisa Bosisio Fazzi, membro del Comitato Donne dell’European disability forum su indicazione del Forum italiano sulla disabilita (Fid). «In una società condizionata da stereotipi della bellezza femminile, le donne con disabilità sono viste come fallite e sono esposte a umilianti atteggiamenti di paura, commiserazione, compassione, pietà e intolleranza – scrive la dottoressa – La maternità è molte volte ostacolata a causa del pregiudizio comune che vada riservata alle donne sane o alla presunta incapacità di allevare i figli come qualsiasi altra donna».
Basterebbe già questo per considerare un inferno l’esistenza delle donne diversamente abili. Ma al peggio, si sa, non c’è fine. E così dalle pagine della relazione affiorano altre sconcertanti realtà: non esistono campagne di sensibilizzazione sulla discriminazione di genere e sulla violenza contro queste persone. «Nemmeno il Piano d’azione nazionale sulla disabilità – aggiunge Bosisio – prevede azioni di sensibilizzazione volte al pieno riconoscimento del loro valore umano e della loro dignità». E che dire delle leggi? Inadeguate, vista l’assenza di norme specifiche. «Ciò significa – continua la dottoressa – che nessuna norma, politica, misura o azione a favore dell’uguaglianza di genere include specifici riferimenti alle ragazze con disabilità mentre nessuna prospettiva di genere viene adottata nello sviluppo e nell’applicazione di norme, azioni e programmi relativi alla medesima condizione». Un elemento di criticità sottolineato anche dal Comitato dell’Onu sui diritti delle persone disabili, che ha raccomandato al Governo italiano la necessità di integrare la prospettiva di genere nelle politiche per la disabilità e viceversa.
Però la strada è ancora lunga e tutta in salita. Non a caso nella legge antidiscriminazione del 2006 la cosiddetta discriminazione intersezionale (quando essa è basata su più fattori che interagiscono in modo da non poter essere più distinti né separati) non è prevista. Mentre in quella del febbraio 1996, relativa alle norme contro la violenza sessuale, è previsto invece un generico aggravamento della pena per violenze compiute sui disabili a prescindere dal genere. In questo contesto, anche l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), il Comitato interministeriale per i diritti umani, il Dipartimento per le pari opportunità presso il consiglio dei ministri, appaiono scatole vuote, perché non affrontano la discriminazione intersezionale e non hanno un mandato specifico né poteri sanzionatori per combatterle. Un esempio, su tutti: a quasi otto anni dalla campagna ‘Abilità diverse, stessa voglia vita’ del dipartimento del consiglio dei ministri, non si conoscono i risultati in termini di ricaduta della promozione delle pari opportunità per donne e ragazze disabili. Non è tutto. «L’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità – aggiunge la dottoressa Bosisio – che pur fa riferimento alla discriminazione, non ha poteri per ricevere denunce, per avviare procedimenti legali e proteggere i diritti delle donne o di sanzionare istituzioni e amministrazioni inadempienti». Ci sono poi le strutture scolastiche, sociali e professionali che non favoriscono lo sviluppo delle relazioni tra pari dove le donne diversamente abili possono vivere pienamente la loro femminilità e percepire se stesse come madri, compagne e professioniste sullo stesso piano delle altre cosiddette normodotate.
Eppure in Italia sono circa un milione e 700mila – secondo le stime di Uildm, la Onuls Unione italiana lotta alla distrofia muscolare – Il numero sale a quaranta milioni se si considerano i Paesi dell’Unione europea, più o meno il 19 per cento di tutte le cittadine del vecchio continente. In tutto il mondo il dato cresce a trecento milioni. Tra le tante discriminazioni che si abbattono su di loro c’è anche la difficoltà di accedere al mondo del lavoro. I dati Istat sono chiari: in Italia soltanto il 35,1 per cento di donne con limitazioni funzionali, invalidità o malattie croniche gravi lavora, contro il 52,5 per cento degli uomini che si trovano nelle stesse condizioni. Altri dati: il rischio di essere stuprata è più che doppio per donne e ragazze disabili: il 10 per cento contro il 4,7 per cento delle donne che non hanno limitazioni. I rischi sono più elevati anche per lo stalking: il 21,6 per cento delle donne ricadenti nella prima categoria ha subito comportamenti persecutori, contro il 14 per cento delle altre donne. Non avendo le stesse opportunità delle altre, le donne con un disagio fisico o psichico sono escluse da tutto. E diventano così facili vittime di discriminazione, violenze, abusi. Come nel medioevo, appunto. Come nelle lontane notti dei tempi.
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