Raccontare la propria storia e ascoltare quella dell’altro. Confrontarsi non solo nella vita ma anche nella letteratura che potrebbe rappresentare uno strumento per superare incomprensioni e pregiudizi, per sovvertire quei luoghi comuni che tanta influenza hanno nel dilagare del razzismo. Parte dall’idea di una letteratura come missione e racconto dell’altro il romanzo “Le rughe del sorriso” di Carmine Abate, lo scrittore di etnia arbereshe nato in Calabria nel 1954 e residente oggi in Trentino, dopo un lungo periodo trascorso in Germania insieme al padre, precedentemente emigrato.
Un romanzo che racconta la difficile storia di Sahra, una bellissima ragazza somala costretta a fuggire dal suo Paese e rifugiata, insieme alla cognata Faaduma e alla nipotina Maryan, in un campo di seconda accoglienza in Calabria, da dove improvvisamente fuggirà per mettersi sulle orme del fratello Hassan di cui non ha più notizie. A cercarla sarà Antonio Cerasa, suo insegnante di italiano che diviene, nel romanzo, anche narratore dell’intera storia. Le peregrinazioni per l’Italia e ancora di più il racconto dei personaggi del romanzo di Abate divengono esempi reali di una storia tra tante, una vicenda che è un po’ il simbolo del migrante e delle difficoltà incontrate nel suo cammino. Il libro stesso si apre con una folla inferocita che sciorina una serie di luoghi comuni contro i migranti. Quella stessa folla, racconta Abate durante la presentazione del romanzo, con cui lui stesso si è imbattuto più volte e che potrebbe rappresentare una qualsiasi folla anti migrante oggi. Una collettività che utilizza parole di disprezzo e di scherno derivate forse più dalla paura del diverso e del confronto con l’altro che da un razzismo consapevole e volontario.
“Spesso i nostri stessi migranti, ovvero gli italiani partiti per la Germania o per il Nord Italia e poi rientrati nel luogo di origine divengono i più accaniti sostenitori dell’espulsione dell’altro – commenta lo scrittore – forse perché i nuovi migranti ci ricordano chi siamo, da dove siamo partiti e non sempre si ha la voglia di confrontarsi col proprio passato, con le proprie origini”.
E allora nel romanzo si aprono nuove storie dentro le storie, con un sistema a cipolla che rivela lentamente pregi e difetti di entrambi fino a dipingere alla fine un unico quadro in cui sono raffigurati insieme protagonisti e apparizioni, individui coraggiosi e folle senza nome, con lingue altrettanto diverse che si incrociano e divengono di volta in volta strumento di conoscenza dell’altro o di opposizione e rifiuto. Diverse prospettive, diverse opinioni che prendono forma in italiano e in dialetto e riescono a lasciare il segno, facendo emergere una condizione universale dell’individuo, tratteggiata dall’incertezza e dall’aspettativa.
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