
Un momento di Vite in Sospeso
Dicono che il carcere cambi una persona. E la cambi in peggio. E’ stato da questo assunto che è partito il mio viaggio nel mondo della detenzione e nello specifico della detenzione al femminile. Ero convinta di trovare volti dagli occhi scavati e sguardi fermi. Tutte convinzioni frutto di retaggi culturali desueti, ma ancora vivi e tutti da rivedere. E’ con mia sorpresa che mi sono ritrovata in una realtà in cui la forza delle donne è al contempo il motore e l’anima di quella realtà matrigna.
Nel viaggio di “Vite in Sospeso” ho imparato che nel carcere la dimensione spazio temporale perde ovvietà, perché i tempi scanditi all’interno di quelle mura sono congelati. Quando si varcano le soglie di Rebibbia lo scenario cambia, tutto muta, il tempo si dilata e lo spazio si concentra. Ma per le donne una vita dietro le sbarre significa anche altro: nelle celle non esiste femminilità e sono donne lontane dal loro essere se stesse, lontane dalla loro autostima. Ho parlato con loro per giorni, ci siamo scambiati sguardi, a volte diffidenti, a volte divertiti, a volte profondi. Alcune erano timide, altre furbescamente attente, altre scoraggiate o deluse oppure strafottenti, ma in molte predominava, invece, la speranza, il desiderio di riscatto (leggi). Quella forza intima e ancestrale di riscattarsi, di riprendere ad amarsi. Ho visto la donna organizzarsi. Sì, perché nell’ottica della sicurezza attiva e passiva il carcere incide sulle detenute privandole di tutta una serie di oggetti che nella vita esterna non sono certo in discussione, ma che fanno parte del mondo della persona, ne caratterizzano l’essenza dell’io. Così ho assistito a rimedi e sotterfugi di ogni tipo in grado di far affrontare una vita di privazioni all’interno di quel mondo mal sconosciuto. Gli oggetti di bellezza di uso quotidiano lì perdono ovvietà. E così le mollette per i panni o pezzi di strofinacci si trasformano in efficientissimi bigodini e arricciacapelli, macchinette moka per il caffè diventano piastre per i capelli, la cera delle candele che mista ad olio viene utilizzata come ceretta epilatoria. Perché nelle loro “Vite in Sospeso” le donne cercano di riempire il vuoto dentro di sé ed attorno a sé, perché quando una donna entra in carcere, fuori ci sono i figli, una madre, un padre oppure un marito che hanno bisogno di lei e che restano abbandonati e senza sostegni e l’angoscia della separazione ed il senso di colpa vengono somatizzati. Ed allora il loro corpo si ammala.
Ed è qui che acquista senso una riflessione: la reclusione del corpo è per la donna un problema centrale della detenzione. Nel corso di questo mio personale viaggio ho anche imparato che nelle carceri esiste una vita sconosciuta ai più. Una vita dove si acchiappa, dove si fiuta e si sente, percependola sulla pelle la forza delle donne. Una vita scandita da una interazione continua tra due gruppi di donne – apparentemente in antitesi – che danno un senso alla funzione riabilitativa della pena. Se dietro le sbarre ci sono le donne detenute, davanti alle sbarre, ci sono altre donne: il personale femminile di polizia penitenziaria (leggi). Il cruciale apporto che danno nei processi di riabilitazione, la loro volontà di impossessarsi appieno di quella nuova funzione che si chiama sorveglianza dinamica, mi hanno fatto toccare con mano il senso che queste donne attribuiscono al loro lavoro. Si, perché come donna e come sindacalista ho sempre avuto la propensione a cercare il senso delle cose e lì la mia attenzione non poteva che essere attirata dal senso che il lavoro delle donne assume all’interno del Rebibbia femminile, quel lavoro che da sempre è il fondamento e la ragione della Uil. Il senso della nostra vita viene dato dal lavoro, nel lavoro e grazie al lavoro siamo persone dignitose e di valore, perché esso è lo strumento di acquisizione della nostra dignità sociale. Da sempre siamo convinti che l’occupazione produca salute mentale, e per questo, come Uil riteniamo sia fondamentale che negli istituti penitenziari si possa lavorare, per evitare, una volta usciti, quell’isolamento che porta alla recidiva.
E così ho osservato le donne detenute lavorare, le abbiamo intervistate in cucina, in sartoria, in lavanderia, mentre muovevano i primi passi nella lingua italiana o tentavano di riacquistare serenità nelle attività teatrali. Camminare su questo percorso per ricostituire la fiducia in sé stessi, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. La comunità esterna deve superare gli ostacoli e le resistenze sociali proprie dei processi di reinserimento. Riprogettare una nuova esistenza, in epoca moderna, significa progettare la propria ricollocazione nella società. Il passaggio dal carcere alla comunità è un percorso complesso, che integra le esigenze di sicurezza della società con le istanze dell’ex detenuto di tornare in essa come membro attivo. Siamo infatti convinti che il compito della giustizia non sia la vendetta, ma il ravvedimento e dunque la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale. Questi percorsi vanno incoraggiati attraverso quel lavoro progettuale svolto all’interno e in sinergia con il personale di polizia penitenziaria, un corpo che nel corso del tempo è diventato sempre più specializzato, arricchito di nuove professionalità e specificità a seguito dell’inserimento della sorveglianza dinamica come nuova e più evoluta forma di gestione del detenuto, per promuovere un modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione.
Per questo credo che serva una politica penitenziaria che volga uno sguardo certamente sul fronte dell’edilizia per adeguarla ai principi di legalità ed umana dignità, come ricordatoci dalla CEDU, ma anche all’ampliamento degli organici di Polizia Penitenziaria, alla loro formazione, con particolare attenzione al loro benessere organizzativo. Affinché il sistema di sorveglianza dinamica possa essere sempre più efficiente è necessario che siano messi in atto tutti i presupposti perché esso possa funzionare e come Uil chiediamo al DAP come l’organizzazione penitenziaria possa dare riscontro a tale richiesta di sistema: sono necessari interventi innovativi sotto il profilo tecnologico, edilizio e informatico. Tutto ciò perché all’interno delle carceri la forza delle donne, detenute da un lato e personale femminile di Polizia Penitenziaria dall’altro, possa svilupparsi sinergicamente e confluire in un unico obiettivo: il reinserimento sociale della donna detenuta.
«Le donne – scriveva Virginia Woolf – devono sempre ricordarsi chi sono, e di cosa sono capaci. Non devono temere di attraversare gli sterminati campi dell’irrazionalità, e neanche di rimanere sospese sulle stelle, di notte, appoggiate al balcone del cielo. Non devono aver paura del buio che inabissa le cose, perché quel buio libera una moltitudine di tesori. Quel buio che loro, libere, scarmigliate e fiere, conoscono bene come nessun uomo saprà mai».
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